Penso a “La grande
zolla” di Albrecht Dürer
Siamo nel 1503 ed il
32enne Dürer acquerella una porzione di campo di erbe selvatiche.
Un paio di anni
dopo, nel suo secondo viaggio in Italia, Dürer e' a Ferrara dove
visita il cantiere della cinta fortificata di Biagio Rossetti. Sta
raccogliendo elementi per uno studio sulla difesa delle citta' che
sviluppera' negli anni successivi fino alla pubblicazione di un
trattato nel 1527 con il titolo:
Alcune istruzioni
sulla difesa della città, delle fortezze e dei borghi.
E' un trattato
scritto per difendere.
L'arte della guerra
era cambiata radicalmente con la comparsa delle armi da fuoco; quasi
divenuta una disciplina sconosciuta per la prima volta dopo secoli.
Le armi da fuoco
allontanano il contatto fisico e portano con se' l'invisibile e il
rumoroso. La valenza psicologica della paura per qualcosa di
invisibile e rumoroso davanti a se' e' paralizzante.
Il comparire di
questi fattori psicologici sconosciuti si accompagnava ad un'altra
scoperta: la struttura degli apparati difensivi delle citta', le
mura, si rivelava improvvisamente inadeguata.
Le alte mura non
erano piu' utili a nessuno: il colpo di cannone non arrivava molto in
alto, ma era terribilmente potente come nessun ariete era mai stato.
Un colpo basso, distruttivo cui non si puo' opporre altra resistenza
al di fuori dell'attutirlo, assorbendolo nella massa muraria, una
resistenza che magari puo', nel migliore dei casi, anche schivare il
colpo. Le mura dovranno essere relativamente basse, molto spesse e
possibilmente seguire una linea spezzata atta a schivare i colpi.
Occorreva trovare una forma nuova, una forma adatta.
Di questa forma
ragionano il duca d'Este e il suo architetto Rossetti ed e' questa
forma che il giovane Dürer giunge a studiare nel cantiere delle
nuovissime fortificazioni di Ferrara.
Un uomo di 32 anni cammina in un campo di fiori selvatici, preleva una zolla dal terreno e la porta nel proprio studio per ritrarla.
Dürer sceglie
quanto di piu' delicato ci sia, dei fili d'erba e allo stesso tempo
(forse allora solo vaga idea) coltiva nella propria mente uno studio
dedicato al difendere le citta'.
Questo fa slittare
l'acquerello ben oltre il virtuosismo di uno studio dal vero.
Dürer riesce a
tenere insieme due mondi cosi' distanti: fili d'erba e
fortificazioni; forse cio' che ci e' caro si tiene in un'unica
tensione con cio' che e' in grado di difenderlo.
I tempi di Dürer
necessitavano di nuove difese delle citta'; questa e' stata la sua
urgenza al punto da dedicarvi una porzione della propria vita. Erano
tempi certo non sospetti di crisi ambientale eppure
contemporaneamente alla presenza di quell'urgenza, dei fragilissimi
fili d'erba diventano il suo acquerello piu' alto.
Cio' di cui parla
quel piccolo rettangolo di pergamena di 31cm per 40cm e' un senso
profondo della bellezza colta da un'intelligenza capace di coniugare
il verbo proteggere ad ogni scala, dalla piu' piccola alla piu'
grande.
Ed e' questo che
rende l'acquerello di Dürer vicino a noi piu' di quanto immaginiamo.
"La grande
zolla" ci parla di uno stato d'animo sospeso, a meta' tra il
senso della fragilita' e l'urgenza del difenderla; uno stato d'animo
cosi' presente e diffuso in noi che bastano dei fili d'erba perche'
esso affiori. Noi abbiamo bisogno di difendere qualcosa che si e'
esteso oltre le mura delle citta', qualcosa che coinvolge l'intero
ambiente in cui viviamo: la nostra urgenza e' diventata un tutt'uno
con l'idea stessa di Ecologia.
Come progettista mi concentro sui tratti dell'acquerello e cerco di capire che cosa mi trattiene ad esso.
... Credo sia
qualcosa di relativo all'ordine di quei fili d'erba.
E' l'ordine poco
ordinato dei campi di fiori selvatici in cui ritrovo le condizioni in
cui io sto bene; l'ordine poco ordinato in cui ritrovo la mia idea di
equilibrio ecologico. Questo ordine e' la cifra attraverso la quale
"La grande zolla" diviene la rappresentazione piu' adeguata
di tale idea.
Mi domando se la
rappresentazione di un'idea possa riuscire a difendere quella idea
stessa.
La storia del
giardino e' la storia del continuo avvicendarsi di forme che hanno
rappresentato le urgenze particolari di chi li creava. Quanto piu' si
e' formata una coerenza tra l'urgenza e la forma che la
rappresentava, tanto piu' il giardino e' stato in grado di avere un
significato e durare.
Se c'e' coerenza tra
urgenza e forma, la rappresentazione di un'idea puo' difendere l'idea
stessa.
Quale forma puo'
rappresentare al meglio la nostra urgenza? Quale idea di forma e di
ordine abbiamo quando immaginiamo un parco?
Ancora davanti all'acquerello
Se "La grande
zolla" e' la rappresentazione piu' adeguata della mia idea di
natura, forse la sua caratteristica compositiva: quell'ordine poco
ordinato, puo' diventare strumento stesso del progettare.
La Natura ci offre
l'opportunita' di entrare in contatto con una bellezza le cui forme
non sono riconducibili ad una consueta idea dell'ordine in quanto
sono dettate dalle logiche che le piante seguono. Le piante quando
vengono lasciate libere di svilupparsi spontaneamente formano
comunita' vegetali di grande ricchezza. Occorre farsi mimetici di
tali paesaggi.
Occorre imparare a
disegnare non calandosi sul foglio dall'alto, ma tracciando la matita
sulla carta come se si stesse seguendo il proprio passo che si
avvicina al tronco di un albero e ne segue la chioma immaginandola
fra venti, quaranta, cento anni... che cosa succedera' quando il
sambuco si appoggera' alla quercia fra tre anni? Quasi che il
progettare fosse la descrizione di un qualche luogo visto chissa'
dove, chissa' quando, in cui siamo stati bene (questi sono i paesaggi
sedimentati, sfuggiti al controllo della progettazione di altri,
cento, duecento anni prima, dove il parco, uscito dal disegno, si e'
restituito alla Natura piu' ampia e la sua vegetazione all'ecologia).
Il rischio di non
ascoltare l'urgenza dell'ecologia e' che i parchi delle citta' in cui
viviamo non rappresentino piu' nulla per nessuno. Il rischio e' che
il paesaggio vegetale urbano si moltiplichi in forme intorno alle
quali non riesce a formarsi alcun senso di condivisione proprio per
il fatto che tali forme non difendono cio' che ci e' piu' caro. E se
la condivisione si indebolisce ad indebolirsi e' il senso stesso di
comunita' che su di essa si tiene.
Il giardino piu'
adatto a rappresentare la nostra urgenza sara' un giardino in grado
di farsi mimetico di comunita' vegetali esistenti, un giardino capace
di informarsi alle logiche delle specie vegetali.
Come nasce il progetto del Bosco Claudio Abbado?
Occorre introdurre
tre nozioni apprese durante gli anni di studio in un college di
Londra.
1'-Dall'arboricoltura:
area di bosco volontariamente abbandonata; un'area di sperimentazione
temporanea al fine di studiare il destino di gruppi vegetali
esistenti lasciati in stato di abbandono volontario.
2'-Boschi urbani:
aree abbandonate divenute boschi, gestiti dal LWT.
3'-Gilles Clément, rifugi di biodiversita': aree urbane non coinvolte dal mercato edilizio o dalla rete infrastrutturale che vengono popolate da una grande varieta' di specie vegetali.
3'-Gilles Clément, rifugi di biodiversita': aree urbane non coinvolte dal mercato edilizio o dalla rete infrastrutturale che vengono popolate da una grande varieta' di specie vegetali.
Queste tre
esperienze mettono in luce un fenomeno: l'apice di biodiversita'.
Bisogna introdurre
il significato di Successione Ecologica, il fenomeno secondo il quale
le specie vegetali, nel loro colonizzare un terreno vergine, si
succedono nella lotta all'approvvigionamento di luce, acqua e sali
minerali: da un primo stadio in cui i muschi e i licheni fanno da
pionieri, si passa attraverso i vari stadi intermedi delle erbe,
delle erbacee perenni e degli arbusti fino ad uno stadio finale in
cui la foresta prende forma con le sue specie arboree dominanti.
Nel corso di tale
successione il grado di ricchezza della biodiversita', ovvero la
ricchezza della varieta' delle specie animali e vegetali presenti,
non e' sempre lo stesso, cresce fino a raggiungere un picco. Questo
picco e' l'apice di biodiversita', ovvero il piu' alto grado di
varieta' delle specie vegetali ed animali presenti in un dato luogo.
Questo stadio corrisponde ad un insieme di erbacee perenni, arbusti
ed alberi simile a cio' che si trova nei margini boschivi, vale a
dire nei primi 20 metri che uniscono il bosco alla campagna, la
fascia del bosco piu' ricca di luce e di aria.
Tale apice di
biodiversita' e' uno stadio passeggero; il livello di biodiversita'
nel tempo comincia ad impoverirsi (per dominanza di alcune specie su
altre) fino a raggiungere una certa condizione di stabilita'.
Se si permette alle piante di svilupparsi secondo le proprie logiche,
concedendo loro di formare proprie comunita' vegetali, gli spazi
verdi riescono a generare autonomamente il massimo livello di
biodiversita' al proprio interno.
E' interessante
chiedersi se non si possa creare uno spazio vegetale in grado di
raggiungere in un tempo relativamente breve tale apice di
biodiversita' e se, una volta raggiunto tale stadio, non si possa
mantenerlo stabile nella sua ricchezza.
Il Bosco Claudio Abbado si propone come questo tipo di paesaggio.
Una fascia di
margine boschivo della superficie di 26 metri per 40 metri e' stata
immaginata come una unita' di paesaggio capace di tradurre in ambito
urbano la qualita' ambientale di un bosco. Il Bosco Claudio Abbado
combina due di tali unita' per uno sviluppo di 80 metri andando ad
insistere lungo il margine piu' sensibile di Ferrara dove il
quartiere residenziale Barco entra in tangenza con l'area industriale
a Nord Ovest della citta'. Un bosco lineare di 80 metri capace di
coniugare la valenza di mitigatore ambientale, espressa da un'alta
densita' di piantumazione, con la vocazione di parco pubblico
garantita dall'alta permeabilita' dei percorsi pedonali che ne
attraversano la larghezza di 26 metri.
L'immaginario del
bosco per un intervento paesaggistico in ambito urbano e' sicuramente
una suggestione emotiva. Una suggestione pero' che si e' approfondita
nella comprensione delle dinamiche ecologiche del bosco. Conoscendo a
poco a poco la grammatica e la sintassi del bosco si giunge a
scoprire che esiste un principio fondamentale in cui dimora la
qualita' di un bosco: la densita' di piantumazione ovvero la
quantita' e la distanza relativa delle piante che lo compongono.
Questo principio presiede alla qualita' del bosco indipendentemente
dalle dimensioni di esso: "grande bosco" o "piccolo
bosco" non importa dal momento che si e' conosciuto la cifra
compositiva che ne presiede la qualita'. Veicolato nel progetto, tale
principio compositivo consente di proporre la qualita' del bosco a
diverse scale di intervento permettendo allo spazio urbano di
accogliere brani di paesaggio di grande ricchezza.
Il bello e' che tutto cio' e' contagioso
Come la bellezza de
"La grande zolla" da cui il Bosco nasce, questa bellezza un
po' selvatica puo' diventare consuetudine visiva e i suoi principii
patrimonio comune e allora un ordine un po' meno ordinato puo'
spingersi un po' piu' in la', uscire dal rettangolo verde del Bosco
Claudio Abbado ed entrare nei nostri giardini ad arricchire i
frammentati spazi privati per trasformarli in un'unita' piu' grande.
Se infatti immaginiamo di guardare dall'alto la citta' di Ferrara,
con la fortuna di poter vedere come gli uccelli, non ci curiamo piu'
dei muri tra giardino e giardino; cio' che vediamo e' un unico
giardino grande quanto l'intera citta'.
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